Il biliardo

"Ci si vede in un'altra vita, tanto il biliardo sarà lo stesso."

La luce che batte calda sul far della sera, rimbalza sul palazzo di Marchino e sulla chiesa, rigirando riflessi d’oro. La birra è rinfrancante in quell’aria distesa nella quiete forlimpopolese che riassaporo dopo molto tempo. Non sedevo su queste sedie da mille anni o semplicemente dalla scorsa vita. Rumore di tazzine. Il giovane cameriere passa discreto fra i tavoli, raccoglie le bottiglie vuote, ne porta di nuove. Passano immagini sul telefonino. La cultura discreta della disincarnazione. Le facce sono imbolsite dagli anni ma dentro e fuori noto le stesse dinamiche sociali. Il cortocircuito della foto sulla porta del bar. Pare fermarsi il tempo, un dejavouz, ricorda l’atmosfera, ricorda lo stato di sospensione che pervade il bicchiere pieno di birra, incontra la quiete dopo la sofferenza, come un deflusso di dolore. Una ferita che fa defluire una perdita, rimarginando la parte viva, irrorata dalla linfa del ricordo. Le facce sono quelle, gonfie di vita, fino a scoppiare in una luna tonda di sudore. 

"Marino, apri il biliardo?"
Avevamo 16 anni, l'arrivo al bar era col gas che contraddistingue l'ormone, pelle grassa da brufolo, stomaco acerbo da gazzosa. Per noi ragazzotti il biliardo era emancipazione, la porta d'ingresso nel mondo degli adulti, l'aria satura di cancro, l'odore del panno caldo misto polvere, la rotondità della biglia di bachelite che scheggiata girava nelle mani e poi pesante rotolava sul panno fino a giungere vicino al boccino. L'apertura del biliardo era un'esplosione sincopata di luce, i tre neon sormontati dalle plafoniere verdi smeraldo sincopavano fino ad accendersi, stabilizzarsi e allora era la luce suadente, mirata, perfetta per il gioco. Fra un singhiozzo di birra ed un tiro alla sigaretta, iniziava la partita. Biliardi Artusi, Forlì recitava l'etichetta. 1,2,3 partite, il tocco di sponda che elastica rilasciava il rimbalzo della palla, la mira alla brocca, i brilli spazzati dalla biglia sul panno con la violenza di un filotto. Led luminoso. Segnapunti. L'Amaro Montenegro sul mensolino. Oppure un colpo tecnicamente riuscito, perfetto ma sfortunato, che non portava neppure un punto: "Segna bello" ci si diceva schernendosi.

Rientro al bar dopo una vita. E' tutto rinnovato qui, intonacato di fresco, nuovo il bancone, la sala dei cannisti, il privè, le panche un tempo verdi, poi divenute granata ed ora oro, il freezer della vodka sparito, il cesso pulito. “Stirato” avremmo detto un tempo. E' tutto nuovo qui, dopo 10 anni e 4 generazioni. Solo il biliardo è rimasto lo stesso. Lo tocco, è tutto graffiato, rigato, solcato, il gioco delle boccette ha fatto il posto alla ben più brutale stecca. Lo tocco ed ogni solco mi pare una ruga, una ferita di guerra, una tacca del marciume del tempo. E' strano vedere quel biliardo, una volta altero e nobile, nel nobile legno, apparire distratto ed imbrattato nel divertimentificio usa e getta del sabato sera. Lo tocco e lo sento vivo, mi viene in mente quando vi dormii sopra, appena spento, ancora caldo, duro come il ferro, dolce come la morte. Le volte in cui l'abbiamo bistrattato tirando pallate di noia o di rabbia alla sponda che poi non tagliava più bene. Una bionda, la spuma, la Tassoni e poi il Peroncino, le castagne secche nel sacchetto, i semini, i ceci, i pistacchi, il mais tostato.
Ci si assopiva davanti al biliardo, lo faceva il vecchio Montalti, dietro gli occhiali spessi come fondi di caffè, sul fare della notte, in quelle notti che mi paiono ammuffite.
Ci si amava sul biliardo, seduti sulla sponda a baciarsi sulle labbra, umidi sussulti della giovinezza che incombeva, che potente e maestosa illudeva che fosse tutto eterno.

Post più popolari