NESSUNO N. 9 - Francesco Presepi
Il Nessuno n. 9 è un fotografo che la manda alla grande: Francesco Presepi da Rimini.
1- Ciao Francesco, inizierei questa chiacchierata dal tuo progetto più importante: "Casa è dov'è casa", un progetto a lungo termine dove racconti la vita di Josè, un senzatetto che ha saputo ricavarsi un tetto all'interno di una colonia abbandonata nel litorale romagnolo. Ci parli del progetto e della difficoltà che hai incontrato a portarlo avanti per 8 anni?
Comincio col dirti che alcuni miei progetti sono a lungo termine per il semplice fatto che il tempo che dedico alla fotografia è spesso frammentario ma non per questo lo reputo tempo "minore".
L' indagine visiva che sto facendo con "Casa è dov'è casa" ha come obiettivo primario quello di far emergere una singolarità: il riutilizzo di un ambiente abbandonato da parte di un uomo che ha deciso di vivere al di fuori delle regole consumistiche che questa società ci impone, sovvertendole.
In questo progetto mostro quello che è il frutto del suo operato, fatto di spazi ed oggetti utili alla sussistenza come l'orto, la stanza da letto, la dispensa, unite ad elementi che sono necessari alla permanenza in questo luogo. Vedo come installazioni tutti quegli elementi che lui stesso ha creato o recuperato da materiali di scarto per abbellire la propria casa.
Come hai anticipato, 8 anni di fotografie all'interno di un piccolo contesto come quello di una casa potrebbero sembrare un'eternità, ma questo tempo è stato necessario per poter approfondire ed apprezzare i cambiamenti che Josè ha apportato costruendo o modificando le stanze da letto a seconda delle sue necessità e seguendo la cura del giardino che inesorabilmente continua ad evolvere nel suo percorso di riappropriazione naturale del contesto che circonda il luogo dove vive.
Anche se in questi 8 anni sono cambiato molto come persona e come fotografo avevo chiaro dal principio che mi sarei interessato senza strumentalizzazioni a questo modo di vivere di Josè, sono convinto che parlino molto di più i manufatti che produce e che si possano osservare le sfacettature del suo carattere e della sua persona attraverso di essi. Gli oggetti sono come un ponte per entrare in empatia con lui. Il mio vuole essere un modo "gentile" di richiamare l'attenzione sulla sua personalità sperando di far emergere la grande dignità che questo uomo ha nel vivere una vita così difficile ma serena.
Posso dire di essere giunto al termine di questo lavoro, nell'ultimo anno ho sentito la necessità di dare una forma a quanto fatto sino ad ora e gli ultimi mesi lo ho utilizzati in questo senso. È un lavoro molto importante per me, sto cercando di finalizzarlo al meglio per non banalizzare quanto fatto e che possa essere non solo un epilogo di un'esperienza ma possa essere fruito per suscitare domande ed interesse magari grazie ad una pubblicazione, un libro o una grande mostra.
2- La tua cifra stilistica è mostrare senza mostrare. Spesso fotografi un evento senza mostrare l'evento, fotografi un soggetto senza mostrare quel soggetto. Molte tue serie sono imperniate su questo sottinteso. Perché? Cosa trovi nel sottinteso rispetto all'esplicito?
Viviamo in un mondo dove l'immagine fa da padrona e siamo tutti sovraesposti a centinaia di immagini al giorno. Ognuno di noi ha tra le proprie mani un oggetto in grado di fare fotografie e riversiamo sui social network una quantità di immagini impressionante al punto tale che spesso nelle testate giornalistiche le immagini che vediamo sono quelle realizzate da un ignaro reporter. Quando decido di iniziare un progetto cerco di scavare in profondità, di arrivare ad aspetti più sottili, più identitari. Fotografare al Santarcangelo Festival per esempio è stato in questo una bellissima esperienza nella quale mi sono concentrato sulla vita degli artisti e del paese senza mostrare gli spettacoli che per loro natura sono già studiati per essere visti. Credo che ci sia altrettanta bellezza nei momenti sospesi dentro i camerini o durante le pause delle prove o nei momenti conviviali. In questo sono stato spettatore agevolato di uno spettacolo unico e non vi è necessità di aggiungere altre immagini che parlano di se stesse, ma ritengo utile lasciar spazio ad immagini che evocano, che incuriosiscono, che ci chiedono "tempo" per essere lette ed apprezzate.
3- "Apnea" è un altro progetto "importante" sul quale hai speso parecchio di te stesso e che, da quello che ho intuito, ti ha spossato molto. Vorrei chiederti come ci si sente ad affrontare una propria presa di coscienza e per quale motivo si decide di fotografarla. Cosa ti ha dato, in termini di sensazioni positive o negative, il fatto di poter vedere e toccare con mano la tua apena?
"Apnea" è stata una necessità, un'urgenza.
In quel periodo stavo attraversando una crisi lavorativa legata in particolare alle ore che investivo per il tragitto casa-lavoro.
A causa della crisi economica del 2014, mi sono ritrovato a guidare in auto lungo lo stesso percorso per più ore al giorno, tempo inutilmente sprecato e maledettamente spropositato se rapportato alle ore di vita dove mi sentivo libero, sveglio, senza obblighi, senza pensieri, senza doveri. Questi istanti di viaggio vissuti (o per meglio dire non vissuti) mi davano la sensazione di non poter respirare. Ho cercato di occupare il tempo al volante ascoltando musica, audio libri, corsi di inglese, nulla di tutto ciò sembrava rendere questo tempo più significativo.
Iniziai a riflettere sempre più spesso sulla mia condizione che era diventata un tarlo fisso; decisi allora di raccontare questo disagio esternando il mio stato d’animo, rendendolo tangibile.
"Apnea" era un grido necessario per mostrare il mio disagio e l'urgenza era quella di comunicare, comunicare immediatamente, a tal punto che le foto venivano pubblicate qualche minuto dopo lo scatto in un rituale che era diventato un appuntamento quotidiano. Vedevo quella esternazione diventare qualcosa di tangibile, di concreto e con il passare del tempo riuscii a trasformare quella condizione interiore in "altro" facendo sì che le fotografie fossero diventate il mio interprete personale.
E' stata una grande presa di coscienza, sia per il suo effetto terapeutico che per la concretezza che ha lasciato sull'approccio alla condivisione dell'urgenza.
4- La modalità di scatto che applichi prevede un' azione minuziosa a partire dai settaggi della fotocamera. Questo significa che utilizzi tempo nel preparare la fotocamera affinchè sforni già dei files pronti o per lo meno semilavorati. Guadagni parecchio tempo in post in questo modo? Quali sono i vantaggi che ne trai?
Lo ammetto: sono un amante della tecnologia ma non ti nascondo che negli anni sono diventato molto pigro in particolare sulla postproduzione.
Ultimamente prediligo una fotocamera a focale fissa, leggera a compatta, sulla quale ho settato qualche modalità di scatto tra colore e bianco nero. Proprio in quest'ultimo mi ritrovo maggiormente a tal punto che visualizzo nel mirino direttamente in bianco e nero. Ho impostato un profilo che, secondo il mio gusto, mi restituisce dei file già buoni. Sono quelli che utilizzo per i social. Spesso e volentieri li trasferisco direttamente dalla macchina allo smartphone e, senza ritagliare e senza correggere nulla, li pubblico sui social principalmente su Instagram).
Ottenere dei file buoni in fase di scatto mi lascia una grande libertà in tutte le fasi successive, poi ovviamente se ottengo una rosa di immagini che necessitano di essere stampate mi dedico alla postproduzione finalizzata alla stampa.
Mi piace la fase di scatto, la fase di editing, la stampa e l' installazione. La post produzione è l'ultimo dei miei pensieri.
5- Ti sei formato con alcuni dei più grandi fotografi contemporanei. Da chi hai tratto il maggior insegnamento e c'è stato qualcuno che ti ha cambiato il modo di fotografare?
Ho avuto la fortuna di conoscere diversi fotografi e, per non fare torto a nessuno, non vorrei menzionarli. Ci tengo però a rispondere alla tua domanda perché credo che ognuno di loro mi abbia lasciato dentro un seme di cambiamento.
Se come comune denominatore ho colto la grande determinazione di ognuno, poi sono state le sfumature che hanno fatto la differenza.
Quello che, più di tutti credo, mi abbia cambiato nell'approccio al modo di fotografare è stato Davide Monteleone che mi ha aperto alla possibilità di interpretare il reportage facendolo diventare un racconto visuale personale che parte dal reale ma che tende ad altro.
6- L’interesse per il prossimo ti ha portato alla fotografia di ritratto. Abbiamo diversi tuoi scatti nei quali costruisci la scena, metti in posa il soggetto oppure ci sono casi nei quali lasci che si esprima sempre dentro un contesto “controllato”. Come gestisci l’aspetto creativo per mantenere freschezza e autenticità nei tuoi ritratti, pur lavorando in un ambiente così strutturato?
La fotografia di ritratto, in particolare il ritratto ambientato è stato il mio primo grande amore ma credo di non essere mai sbocciato concretamente. Mi spiego meglio: mi piace il rapporto di fiducia reciproca che si instaura con il soggetto nel quale ripongo tutte le mie attenzioni. Cerco di vivere la fotografia come esperienza personale oltre che utile alla produzione di un risultato e proprio per arrivare a questo binomio necessito di sentire superate quelle barriere della confidenza, della fiducia.
Ho sempre cercato di essere me stesso con tutte le persone che ho ritratto e vedere che il rapporto di fiducia rimane anche oltre alla fase di scatto mi rende orgoglioso. Non faccio della mia fotografia un mestiere e per tale ragione scelgo a volte di rinunciare all'occasione piuttosto che viverla in un modo che non mi appartiene.
Ci sono state diverse situazioni nell'approccio al ritratto che mi hanno affascinato, dalla costruzione del progetto dirigendo e progettando lo scatto a tavolino, sino alle situazioni più intime, dove mi sono lasciato trasportare dal momento.
Generalmente nei progetti pre-visualizzo un risultato che poi cerco di inseguire man mano che la fase di scatto si sussegue.
La situazione è generalmente controllata, nel senso che delle indicazioni di massima vengono fornite, ma nella fase di scatto poi è una danza alla ricerca di una forma, di una naturalezza o tensione che in un certo istante si concretizza proprio come immaginavi, a volte persino meglio di come avresti potuto immaginare.
È bello anche farsi sorprendere uscendo dal precostruito, cercando di interpretare al meglio l'altro seguendo l'istinto e la situazione.
Ultimamente prediligo delle situazioni molto essenziali, oserei dire di vecchia scuola. Una luce, uno sfondo neutro, il soggetto e io. Negli anni mi sono fatto affascinare dalle mostre di Paolo Roversi dove la sua visione restituiva gran valore ai corpi ritratti, pochi elementi ma usati con grande attenzione e grande sensibilità sia per la figura ritratta che per l'uso quasi maniacale della luce. Semplicità, visione, eleganza, estro e tanta sensibilità. Tutti ingredienti che adoro nei suoi risultati e che posso solo ammirare da lontano.
E quindi che fine ha fatto il mio amore per il ritratto? Lo penso, lo osservo, lo immagino, ma rimane vivo solo con le situazioni più intime, quelle che decido in accordo con chi vuole diventare mio complice, con chi è disposto a darmi fiducia senza che la chieda.
7- Il tuo raccontare applica forme meno rigide dello storytelling. E' una frase corretta? Cosa ne pensi?
Credo che nella fotografia contemporanea l'ibridazione tra comunicazione visiva e creazione artistica siano elementi che ad oggi non siano ben digeriti.
Faccio questa premessa perché io stesso sto cercando di esplorare delle modalità di narrazione che vadano oltre allo storytelling del quale però rimango influenzato per il tipo di costruzioni possibili, per la ricerca progettuale che occupa sia la fase di esplorazione e conoscenza, che la ricerca nella conclusione del lavoro.
Una costruzione che però appartenga al solo storytelling mi lascia dei vuoti che ho necessità di colmare per fare emergere gli intenti dei miei progetti… ne sento il limite e mi rendo conto che approcciare ad una comunicazione diversa, mista, lasci perplesso chi osserva che non si ritrova in un canone specifico.
Mi piacerebbe riuscire a costruire narrazioni più aperte, che pongano domande e che non veicolino troppo l'osservatore in una narrazione serrata ma nello stesso tempo che possa essere comunque suggerita, velata. Non sono legato al reportage se non per l'uso di situazioni che ricerco nel reale ma che uso per mostrare concetti che vanno oltre a quanto rappresentato direttamente nell'immagine. Facendo un parallelo con il viaggio, vorrei essere un buon compagno di avventure, dove il punto di partenza è solo il pretesto per viaggiare e la destinazione non è del tutto chiara, ma si conosce la direzione di marcia.